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terça-feira, 14 de agosto de 2012

Azim


C’era una volta, in una terra molto lontana dove l’inverno non finiva mai, in un mondo dove vivevano uomini che avevano la pelle blu e nel petto al posto del cuore schegge di ghiaccio, un bambino diverso da ogni altro in quell’epoca remota.

Nacque figlio di un barone e di sua moglie,entrambi del Popolo Blu. Appena uscito dal grembo della madre, non emise alcun suono, i suoi occhi stupefacentemente grandi e di colore indaco guardavano con saggezza innata le facce stupite dei genitori e dei sudditi. Aveva infatti la pelle di un violetto chiarissimo che con il passare del tempo sarebbe diventato più marcato. Lo chiamarono Azim.

 Gli anni trascorsero ed egli fu cresciuto giustamente. Le spalle della povera creatura furono dal suo primo passo caricate di obblighi e dovette imparare come prima cosa a controllare le proprie emozioni. Passò la sua infanzia sì nel lusso più sfarzoso eccetto quello del palazzo del re, ma non ebbe fratelli con cui giocare e neppure amici, sebbene lui neanche conoscesse la parola “gioco”. Eppure, quando riusciva a sfuggire alle governanti e ai professori di lettere, sgattaiolava fuori per correre dritto nel bosco. Poteva sentire gli alberi parlargli, sfiorati dal perenne vento che accarezzava quei colli desolati e faceva turbinare la neve all’insù. Gli animali gli si avvicinavano senza aver paura di lui, come se la sua magica presenza influenzasse la natura circostante.

 Un giorno,mentre ammirava il calar del sole, sentì qualcuno gridare e subito dopo uscì dai cespugli correndo un ragazzino dai capelli rossi e scompigliati che urlava a squarciagola come se avesse un elefante ai calcagni. Azim rimase immobile a guardare le impronte fresche nella neve lasciate dallo sconosciuto, quando udì un fruscio e dalla vegetazione saltò fuori ruzzolando un cucciolo di tigre grande quanto un segugio da caccia che gli rivolse un brontolio sommesso, frustando nervosamente l’aria con la coda. Gli si avvicinò e lentamente tese una mano verso il felino. All’improvviso qualcuno lo tirò per il mantello così bruscamente nel tentativo di salvarlo che tutti e due caddero in uno strato di neve spesso. Azim si ritrovò davanti un viso roseo e lentigginoso che lo osservava con occhi verdi spalancati, e, solo in quel momento, si rese conto che si trattava di un comune umano. Rialzatosi, cercò di calmare lo sconosciuto e di assicurarlo che la bestia, la quale stava allegramente masticando un suo stivale, era assolutamente innocua. Si presentò e gli offrì i suoi servigi, come era dettato dalle buone maniere, ma l’altro risultò essere solo il figlio del falegname del paese che si era perso. Si chiamava Hasar. I due strinsero subito un’amicizia duratura.

Avevano continuato nell’abitudine di chiacchierare nel bosco, giocavano a carte, andavano insieme a caccia o in paese travestiti, ma nessuno li avrebbe scambiati per qualcun’ altro, soprattutto il baronetto, il cui si era fatto di un colore più vivace. Il tempo trascorse velocemente e Azim divenne un bel ragazzo dai capelli corvini lunghi e lo sguardo etereo quasi sempre assente. Hasar, invece di seguire le orme del padre, fu mandato a fare l’assistente all’orafo. Conobbe Azim a poco a poco, abituandosi ai suoi strani poteri e imparando ad apprezzare anche il suo carattere chiuso. Ma, senza saperlo, influenzò molto il suo amico, che era affascinato dai suoi modi spontanei e non riuscì mai a rinnegare le proprie emozioni.

Quando arrivò il 17esimo compleanno di Azim,i suoi genitori lo prepararono a quel che lo aspettava. Sarebbe stato sottoposto infatti alla Cerimonia d’Iniziazione. Questo significava per la Gente Blu la fine dell’infanzia, una rinascita. Gli avrebbero impiantato nel cuore i cristalli del magico Ghiaccio Vivo, che gli avrebbero permesso di vivere più a lungo. La sua anima sarebbe rimasta rinchiusa nel loro interno e lui non si sarebbe sciolto col passare del tempo, come succedeva appunto a quelli che non ricevevano nessun cristallo. Ma non avrebbe potuto più esprimere alcuna emozione. Azim all’inizio aveva paura, lo confessò a Hasar, e lui lo commiserava, ma non trovarono altra soluzione quindi non gli rimase che consolarlo. Alla fine i genitori lo persuasero.



Diventò come un fantasma. Non aveva l’aspetto dei suoi simili che sembravano fatti di pietra, ma assomigliava di più a un’anima senza pace perduta in un sogno. Hasar cercava di non dare molta importanza alla trasfigurazione dell’amico e si comportava allo stesso modo verso di lui, ma con l’andare del tempo non provò più alcun piacere nel parlare quasi sempre da solo e pian piano calò tra loro il silenzio. Poco tempo dopo la cerimonia, Hasar si trasferì in città per cominciare la sua carriera di gioielliere, e Azim, sentitosi tradito, ricominciò a rifugiarsi nel bosco sempre più spesso, fin ché in esso scomparì.

Grazie ai cristalli aveva tutta l’energia vitale che gli serviva.Vagabondò per giorni fin quando una mattina, al sorgere del sole, dovette fermarsi per restare a bocca aperta davanti a uno spettacolo magnifico. In mezzo a una radura sembrava che ballasse nel vento una nuvola di neve che sprigionava tutt’intorno coriandoli di luce, ma quando si avvicinò di più, Azim si accorse che nella nuvola danzava una donna. “Una fata!” pensò e andò a vederla più da vicino. Ma lei si spaventò e si tramutò in fiocchetti di neve. Azim era così affascinato che decise di volerla vedere di nuovo, allora rimase lì ad aspettarla fino al tramonto. Si appostò in mezzo a due cespugli. Avvolto nel mantello com’era, nessuno si sarebbe accorto di lui.

Quella sera però fu testimone di una danza a cui parteciparono più incantevoli creature. Rimase senza fiato davanti a tanto splendore e non si mosse per tutta la notte. Con l’avanzare del mattino, una a una cominciarono a scoppiettare in tanti mucchietti di neve, e quando rimase l’ultima, Azim riconobbe in lei la fata del giorno precedente. Lo aveva visto, con un balzo arrivò fino ai cespugli dove sedeva, lasciandosi dietro una scia argentata. Sembrava arrabbiata. Lo guardava truce attraverso le sue lunghe ciocche bianche e pestava i piedi con collera. Egli, che non aveva idea di quel che gli volesse dire la fata, si presentò e fece un inchinò, ma lei gli lanciò in faccia una palla di neve. Accecato, Azim per sbaglio le prese la mano e ad un tratto una sensazione di gelo punzecchiante gli assalì tutto il corpo. Sentì nella testa una strana voce accompagnata da un trillo simile a campanellini. Era la coscienza della fata. Le disse di non aver paura di lui e si scusò per averla irritata, ma che non aveva potuto resistere alla sua grazia e alla sua magia. Lei, lusingata, si calmò, e gli trasmesse, in un modo che Azim non riuscì a spiegarsi, che il suo nome era Aya. Ma appena il sole cominciò ad apparire dietro le cime delle montagne, si dileguò come la prima volta. Azim, esterrefatto dal loro contatto telepatico, rimase un altro giorno. E un altro ancora e ancora un altro, fin che non si conquistò la fiducia della sua fata delle nevi e si innamorò di lei pienamente. Aya,di natura molto semplice e spontanea, si invaghì pure di lui.

Quando infine lei si dichiarò per prima, lui non riuscì a dire niente. Disperato dal fatto di non poter in alcun modo farle avere l’amore che si meritava, ritornò a casa distrutto. Non riusciva a scacciare dalla mente le sensazioni che provava quando le toccava la mano brillante, come se fosse fatta di piccoli diamanti. In breve si rese conto che viveva delle notti in cui potevano scambiarsi i pensieri e poteva guardarla nei suoi occhi azzurri e lucenti. Ma il senso di profonda delusione che gli trasmetteva lo spezzava e non voleva che lei soffrisse per colpa sua. Sperava che col tempo si sarebbe dimenticata di lui.

 Una notte sentì bussare alla finestra della sua camera e la vide là, sospesa, splendente, che piangeva. Non ebbe il coraggio di aprirle,ma rimase ad osservarla. Quando la mattina Aya scomparve, guardò dalla finestra e si accorse che, sparse per il davanzale, c’erano piccole gocce di cristallo. Le raccolse nel pugno e le strinse al petto.



Hasar pensava di giorno in giorno sempre meno al suo amico d’infanzia, dato che ebbe la fortuna di un buon inizio e aveva un’abbondante clientela. La sua bottega era un viavai di gente e presto guadagnò abbastanza per permettersi un assistente. Quando questo, un bambino povero del villaggio che indossava sempre gli stessi vestiti, lo informò che un giovane dalla pelle viola lo voleva vedere, lui corse fuori dal retrobottega e, visto Azim davanti il bancone, sulle prime lo rimproverò di non essersi fatto vedere così allungo, poi però lo abbracciò e lo invitò nell’officina.

Cominciò a fargli domande, ma quando gli portò una tazza di tè, si accorse che ansimava e aveva un aspetto orribile. Lui però gli sorrise. Gli chiese che cosa gli era successo e Azim mise sul tavolo tre sacchettini di cuoio e cominciò a raccontargli del suo incontro con Aya. Hasar aprì il primo e vi trovò dentro le lacrime della fata. Nel secondo c’erano 10 monete d’oro. Azim gli disse che voleva che lui le facesse una collana con queste gemme e Hasar accettò, ma quando aprì il terzo, il cui conteneva i cristalli vivi del suo amico, cacciò un urlo e prese a spogliarlo, scoprendo che stava morendo dissanguato. Azim lo pregò di finire entro il tramonto, e così fu. Poi si fece trascinare fino a palazzo, dove un pugno di sudditi aiutò il gioielliere a portare il baronetto fino in camera sua, dove lo posarono sul letto. Hasar si sedette vicino a lui e aspettando la notte si addormentò.

 Lo svegliò un forte bagliore proveniente dalla finestra. Aprì gli occhi e la vide. Poggiava le manine sul vetro e, guardando disperata il proprio amore in fin di vita, dava colpetti alla finestra. Hasar le aprì. Una folata gelida fece il giro della stanza e con essa, un lamento che gli colmò il cuore di melancolia. Azim, al cui ormai rimanevano pochi attimi, chiese all’amico di metterle al collo il monile di cristalli. La prese per mano e seguirono vari minuti di silenzio in cui si guardarono intensamente, almeno così sembrava a Hasar. La fata ad un tratto riprese a piangere e baciò Azim, che la accarezzo sul viso ed esalò il suo ultimo respiro. Proprio in quel momento entrarono nella stanza i suoi genitori con un dottore, ma troppo tardi. Aya emise un gemito così acuto che a tutti nella camera vennero i brividi e subito dopo volò via dalla finestra. Il barone e la moglie corsero verso il figlio quasi travolgendo il dottore e il gioielliere e, per la prima volta, espressero il loro amore per Azim in lamenti e lacrime che non finivano mai. Cosa strana, cominciarono a diventare dello stesso colore del figlio e sentirono, dopo tanto tempo, i loro cuori battere di nuovo come una tempo.

Questo forse non poté consolare il barone e la baronessa,ma tutto il Popolo Blu cambiò colore con entusiasmo. La maledizione, scagliatagli in ere assai ben più remote di quanto potessero ricordarsi, si sciolse, e tutti furono felici di non essere più prigionieri del Ghiaccio Vivo. Gli inverni perenni furono in parte sostituiti da altre stagioni e di quello che si sa, le fate delle nevi non furono mai più viste.

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